Esperimenti sul cinema tattile Paola Valenti |
||
L’intervento condotto da Scott Hayes nella Galleria
Studio 44 è il frutto di un concatenarsi di incontri: l’incontro di un artista cosmopolita
– formatosi tra Sidney, Parigi e Vienna - con la città
di Genova e con il peculiare tessuto urbanistico del suo centro storico;
l’incontro, all’interno di esso,
con il singolare spazio espositivo della galleria, un vero e proprio
tunnel derivato dalla copertura, secoli addietro, di un vicolo e, dunque,
con un ambiente denso di
storia e di stimoli percettivi che, proprio per queste sue caratteristiche,
si è offerto all’artista quale spunto per avviare una riflessione
sull’incontro tra passato e presente, tra
memoria e contingenza. Tale riflessione, oltre ad essere una fondamentale
chiave di lettura dell’opera realizzata da Hayes, ha improntato
la metodologia e le scelte operative che hanno guidato l’intervento
stesso: Hayes, infatti, ha elaborato un progetto di massima sull’onda
del ricordo delle impressioni del suo primo soggiorno genovese, ma ha
deciso di subordinare il passaggio dalla fase progettuale a quella operativa
al momento in cui, trovandosi nuovamente a Genova per allestire la mostra,
egli avrebbe rivisto la galleria e avrebbe ripercorso il dedalo di vicoli
e le strade affacciate sul porto: solo allora, ritrovandovi o meno certe
sensazioni, avrebbe potuto verificarne l’autenticità e
la reale portata. L’interrelazione psichica e sensoriale tra l’artista
e il luogo, la riattualizzazione nel presente di impressioni pregresse,
sono così assurti a nodi concettuali dell’intera operazione
che si è venuta delineando, a sua volta, come un incontro tra i concetti di spazio e percezione.
Hayes ha usato vari espedienti – la scarsezza o la totale assenza
di luce, la tenda per aprire o dividere lo spazio, gli oggetti repentinamente
disseminati nell’oscurità, il fluire delle immagini di
diversi video – per rendere mutevole ed instabile l’ambiente
che avrebbe accolto gli spettatori e per coinvolgerli in una esperienza
vicina all’haptic cinema, così come teorizzato da Laura Marks. Nei suoi scritti la Marks si ricollega
al concetto di haptic perception, ossia di quella unione di funzioni tattili e cinestetiche
grazie alle quali noi possiamo esperire fisicamente gli oggetti. Applicando
queste teorie al campo cinematografico, la Marks arriva ad oppore ad
una visione puramente ottica una haptic visuality, in funzione della quale gli occhi
devono agire come organi del tatto: laddove una visione ottica presuppone
la distanza tra colui che guarda e l’immagine e dunque costringe
lo spettatore a “lavorare d’immaginazione”, l’haptic
cinema
intende creare una relazione sensoriale tra spettatore ed immagine.
Non si dovrebbe pertanto parlare di “oggetto” di uno sguardo
tattile, quanto di dinamica soggettività tra colui che guarda
e il dato osservato. Per creare il suo cinema tattile Scott Hayes ha coinvolto
i visitatori della galleria in due diversi “esperimenti”:
nel primo (life cinema 1) ha proposto un vj-set in cui il veloce susseguirsi
di diversi video rendesse impossibile un coinvolgimento nella narrazione
e inducesse il pubblico
a cercare altri livelli di fruizione; ha inoltre preferito alle nitide
immagini cinematografiche quelle disturbate e sgranate dei video che,
proprio in virtù della loro inferiore qualità, restituissero
in modo approssimato ciò che la visione umana avrebbe colto nel
dettaglio e fossero dunque funzionali ad attivare una differente percezione
visiva. Nel secondo esperimento (life
cinema 2)
Hayes ha immerso il pubblico in ciò che lui stesso ha definito
un pensiero-sensazione, lasciandosi guidare dal quale i visitatori
sarebbero stati in grado si avvertire nella pressoché
totale oscurità la presenza di
oggetti, senza tuttavia mai arrivare a coglierne né la
reale natura né la definiva collocazione.
L’intento primario dell’artista non è stato
infatti quello di condurre il pubblico a decodificare il rapporto oggetto-spazio
nei termini propri della problematica della scultura o dell’environment, ma di stimolare una percezione sensoriale
ed immaginativa come percorso alternativo verso la conoscenza. Anche il video Unknownsomewhere, realizzato appositamente per
la mostra, ha rappresentato per Hayes un’occasione per muoversi
nel campo dell’haptic cinema indagando i processi della
conoscenza, del rapporto spazio-percezione e dell’immaginazione:
in esso i concetti di grandezza, piccolezza, proporzione, prossimità,
distanza, limite, orizzonte si intrecciano e si sovvertono, creando
nuovi parametri per un diverso modo di guardare. Non a caso Hayes
costruisce il suo video intorno all’immagine del mare, quel mare
nomade che Gilles Deleuze oppone agli spazi sedentari
e che considera uno spazio liscio. Sono spazi lisci il mare, il deserto,
la campagna; è uno spazio striato la città; la campagna
dell'agricoltura e il mare come luogo della navigazione sono esempi
di come lo spazio liscio possa divenire striato. Nello spazio striato
le linee e i tragitti sono subordinati ai punti: si va da un punto a
un altro, è lo spazio delle cartine geografiche.
Nel liscio, al contrario, i punti hanno valore perché
una linea passa tra di loro e li attraversa: è il percorso che
conta. Nello spazio liscio la linea è dunque un vettore che cambia
continuamente direzione, come il folle di Foucault o il nomade che cambia
incessantemente meta seguendo e inseguendo una vegetazione locale, temporanea,
che si sposta. (L. De Fiore in http://mareinfilosofia.blogspot.com). Lo
spazio liscio presuppone dunque una diversa modalità di fruizione,
non supportata da convenzioni ma affidata unicamente all’esperienza
sensoriale del singolo individuo, proprio come i luoghi e le immagine
dell’haptic cinema di Scott Hayes. |
||
return to english version | unknownsomewhere movie |